Ieri, in Messico, hanno acceso candele e lasciato piccole ciotole d’acqua per gli animali che non ci sono più. Si dice che, per una notte, le loro anime tornino a visitarci, leggere come polvere di stelle. Io non so se sia vero, ma mi piace pensare che ci sia un’ora segreta in cui i passi dimenticati tornano a farsi sentire, e che il mondo, per un attimo, si riempia di battiti e ronzii che solo il cuore può udire.
Oggi penso a loro: a tutti i compagni di pelo, piume o squame che ci hanno insegnato il linguaggio della presenza. Nessuno come loro sa restare accanto nel silenzio. Un animale non chiede, non pretende: esiste con te, respira con te, ti guarda con quella calma che ti costringe a fermarti. Ti salva senza parole.
Ci hanno fatto ridere, spesso. E piangere, quando è arrivato il momento di lasciarli andare. Ma in fondo non se ne vanno mai davvero: il loro odore resta sui vestiti, la loro abitudine nei gesti. Ti sembra di vederli ancora all’angolo del tappeto, o di sentire il piccolo tonfo delle zampe sulle scale.
Oggi ho pensato ad Argo.
Ricordi quell’attimo nell’Odissea in cui riconosce Odisseo, dopo vent’anni, e muore sereno, finalmente in pace? Ogni volta che lo leggo mi si stringe qualcosa dentro. Perché Argo non è solo un cane: è l’essenza della fedeltà, la memoria viva di ogni creatura che ha aspettato, amato e poi salutato.
Forse tutti gli Argo del mondo ci attendono ancora, da qualche parte, con lo stesso sguardo paziente.
Ma penso anche ai piccoli compagni, quelli minuscoli, quelli che stanno nel palmo di una mano.
Al mio cricetino, per esempio — così piccolo che bastava un granello di cibo per riempirgli il mondo. A volte mi sembra ancora di sentire il suo fruscio tra le pagine, o il suono lieve della ruota nella notte. Era una presenza minuscola, eppure così piena di vita, come se contenesse dentro di sé tutta la gioia del semplice esserci.
Con lui ho imparato che l’amore non ha misura: può stare in un abbraccio o in un respiro, in una zampetta che sfugge o in un silenzio che resta.
Penso che ogni casa conservi il suo piccolo altare invisibile.
Non fatto di fiori o fotografie, ma di ricordi che scaldano come un respiro. Una coperta ancora piegata, una ciotola riposta, un nome che torna ogni tanto tra i pensieri come una carezza dimenticata.
Forse è questo il modo più giusto per onorarli: non smettere di parlarne, non smettere di amarli.
E se anche loro, stanotte, tornano davvero — che trovino la porta socchiusa, una candela accesa, e un po’ di pace.
Che possano posarsi accanto a noi, senza paura, e sentire che sono ancora a casa.
Perché lo sono sempre stati.