sabato 17 aprile 2021

L'arte di essere fragili - Alessandro D'Avenia

Le cose assumono contorni indefiniti e quindi vibrano,
come accade con le stelle, per te sempre "vaghe",
cioè belle perché distanti.
In un attimo si potrebbe perderle, e in quello stesso attimo si comincia a desiderarle,
a immaginarle, a progettare come raggiungerle, a sperare.
Ogni cosa per te è contemporaneamente anche la sua possibile perdita.


Abbasso l'intensità della luce, chiudo la porta e mi lascio circondare dal silenzio.
Questa volta davanti a me non c'è un libro e basta. E non è un amico particolare, come spesso lo definisco.
Con atto reverenziale lo apro, sfoglio la prima pagina e ora, alla mia sinistra, c'è la riproduzione del ritratto di uno dei poeti più moderni e brillanti di tutti i secoli;
nella pagina accanto c'è la copia con la sua scrittura, di una delle poesie più belle del mondo.
Il ritratto è su sfondo scuro, la scrittura naturalmente, su sfondo chiaro. Entrambe le pagine brillano. In quella di sinistra il focus è sugli occhi del poeta, in quella di destra il mio sguardo si fa rapire dalle parole "il guardo esclude". 
La pagina di destra si riflette in quella di sinistra, e viceversa. Lo sguardo limpido e intelligente del poeta si rispecchia nella sua bella grafia, ordinata e sicura.

L'arte di essere fragili è un libro dolce, silenzioso, dedicato a tutte le creature spezzate e a coloro che le proteggono.
Alessandro D'Avena giovane professore di liceo, intraprende una delicatissima comunicazione epistolare con un genio della letteratura italiana: Giacomo Leopardi.
Restituendoci non solo un poeta giovane, giocoso e grande, ma donandoci un frammento della nostra vita passata, ormai sepolta sotto coltri di esperienze deluse, amori infranti e speranze sperdute.
Le prime pagine mi hanno fatto sentire un po' a disagio. Non sono più un'adolescente da secoli! Possibile che mi senta ancora tra le creature spezzate? La risposta è: sì, ma non mi importa.
Perché il libro parla a tutti, e hai bisogno di finirlo. E quando lo chiudi pensi alle estati del Liceo, alle sudate carte, ai tuoi poeti preferiti, ai bagni al mare, ai primi amori:  Che speranze, che cori o Silvia mia!

L'ho letto con molta lentezza. Nessuna matita, nessuna agendina per ricavare citazioni. Il libro mi sembra un'infinita citazione.
C'è una parte in particolar modo in cui mi sono ritrovata.
Ed è quella di una donna di circa cento anni, che si ferma a rispolverare i ricordi di una vita intera e scopre che...
come una sostanza più pesante, si erano depositati dopo un certo tempo sul fondale del suo mare interiore. E mi confidava che quel sedimento era fatto di una sola cosa: amore, l'amore dato e quello ricevuto. E lei lo chiamava bellezza, la bellezza di aver costruito qualcosa che resta: il peso di una vita.
Un po' è quello che ho sempre pensato anch'io di me stessa: non ho niente, non so fare niente. La mia unica colpa, il mio unico onore è l'amore. E se sono così pesante è forse perché ho amato tanto e qualcosa ho anche avuto. La bellezza che disperatamente cerco in una margherita che cresce tra le fughe delle mattonelle, un raggio di sole che filtra tra gli alberi, le onde del mare, sono nutrimento di bellezza di cui ho bisogno per non morire.

Mi è piaciuto molto il dialogo interiore attraverso le opere di Leopardi.
Che ripeto, è stato un genio italiano, non apprezzato nella sua epoca e ancora oggi non molto osannato dagli studenti.
Tutta colpa di quel "pessimismo" che gli viene attribuito. Che contestavo da studentessa e a maggior ragione contesto oggi, che sono grande...
Era un illuminato.
Uno che si interrogava sulle cose.
Un poeta che portava l'infinito in ciò che è finito: un colle, una donzelletta, un passerotto.

Sempre con la luce si perde qualcosa e sempre con le tenebre qualcosa si guadagna.
E magari è l’essenziale.

Non sono capace di stare al mondo. Penso di aver fatto poco e male nella e della mia vita.
Forse l'arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti.
Ma se si è sempre affamati non si riesce a trovare la bellezza, a vederla.
E così si perde la serenità, la felicità, in una continua ricerca. E si crolla sotto il peso delle imperfezioni, delle inadeguatezze che non si accettano e non si sopportano.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Mi manca PA. Non so che altro dire. Lui era il mio infinito, la mia ricerca di infinito.
Lui era quello che dava un senso all'intero Creato. Ed io mi annegavo nella convinzione di essere nel posto giusto, di aver raggiunto la vetta più alta.
Tutto era collegato, e anch'io facevo parte del tutto.

Ho chiuso il libro e mi sono sentita triste. Ho sentito il peso dei miei errori.
E sento di non avere più la forza per sopportare tale peso.

ore 01.19 di notte
Rivedere le immagini della Regina Elisabetta durante il funerale del suo sposo, il principe Filippo, mi ha profondamente commossa.
La sua solitudine è straziante.
L'amore vero esiste.
Magari si costruisce giorno dopo giorno, non si improvvisa.
Sarà fatto di sacrifici, di perdoni e di qualche boccone amaro da ingoiare.
Ma esiste, è raro, molto, tristemente, raro.

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