domenica 17 gennaio 2021

La casa in collina - Cesare Pavese

 La colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra.


È da un po' di tempo che rincorro mentalmente Pavese. In un modo o nell'altro, mi cammina accanto da mesi. E oggi ho finalmente deciso di fare ciò che mi riesce meglio: stare in silenzio e abbandonarmi alla lettura.
Più che una lettura è stato un mettersi in ascolto.
Il romanzo è scritto in prima persona e ha in sé uno spirito autobiografico.
Mi sono dovuta impegnare per ricordarmi che non è Cesare che parla, ma Corrado, un insegnate di scienze, durante i terribili anni della Seconda Guerra Mondiale.
Penso di aver compreso e imparato questo periodo storico più dalle mie letture che stando seduta in classe, a scuola. Mi scoccia dirlo apertamente ma non ho avuto insegnanti dotati. Poca passione. Zero spiegazioni. Forse perché erano tutti sulla soglia della pensione. Non c'è una lezione che mi sia rimasta impressa. E sono stata un'alunna attenta e studiosa. Diciamo che ho recuperato e fatto meglio in seguito. Pavese era uno scrittore del Novecento. Come tale l'ho studiato da sola, per i fatti miei, perché i programmi in classe, difficilmente arrivano a quel periodo.
Ciò che mi ha colpito di questo suo modo di scrivere è uno stile molto realistico e tutt'altro che semplice.
Si parla di guerra incombente. Non sai se le persone che hai incontrato, che ti ha fatto conoscere nelle prime pagine, riusciranno a sopravvivere agli orrori della guerra. Sei sempre sull'orlo di una eminente tragica fine.
Eppure all'improvviso, ti ritrovi a leggere: 

Qui le stelle piovevano luce.

Cesare Pavese ci racconta una storia di solitudine individuale che cozza contro la storia e l'impegno che ognuno è chiamato ad assolvere per svolgere il suo ruolo nella Storia.
Di fronte alla vita che viene così brutalmente stroncata, sia di un compatriota sia di uno straniero, si annullano le individualità. Siamo un corpo solo. 

Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato.
Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

Un romanzo bellissimo, anche se la parola "romanzo" deve essere sempre usata con prudenza quando si tratta di Pavese. Che scriveva in un modo tutto suo, in un realismo che andava oltre il reale. Il suo dialetto e la lingua si intrecciavano sapientemente, perché nessuno come lui, traduttore appassionato di letteratura straniera, sapeva calibrare e scegliere ogni parola. Ogni parola era un simbolo.
Più che lungo una trama, la storia si intreccia lungo delle parole particolari, che tornano nel testo come un richiamo.
In barba alla sua brevità, il racconto si sviluppa in verticale, scende nell'animo di chi legge provocando emozioni e  riflessioni sulla guerra, su ogni guerra, costringendoci a fare i conti con noi stessi, costringendoci a dire: che ne facciamo dei morti ora?


Cosa sono nel mondo?
La vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o qualcuno.
Io non riesco ad andare avanti. Pavese si è tolto la vita che aveva quarantadue anni. La stessa età la compirò ad aprile, ma mi sembra un'ingiustizia. Mi sembra di non averne diritto. Di aver già approfittato troppo di questa vita.
Cosa solo io? Perché sono nel mondo?
Perché un uomo complesso, straordinario, di valore, di talento, si è ucciso mentre io sono ancora qui a lottare contro la vergogna, il senso di solitudine, il tentativo di trovare un posto nel mondo?
Anch'io in sostanza chiedo un letargo, un anestetico, una certezza di esser ben nascosto.
Un anestetico...non sentire più niente.


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